Conversazione di Livio Partiti con Maria Antonietta Macciocu
MARIA ANTONIETTA MACCIOCU - DONATELLA MORESCHI
"VINILE"
ROMANZO FAMILIARE IN COLONNA SONORA
INDIES G&A
"Non siamo storia da narrare ai figli, se mai ne avremo, perché di questo limbo crudele sarà meglio tacere."
Non è facile scoprire che tuo padre in realtà non è l'uomo che ti ha generata, né decidere di avventurarsi in una ricerca confusa e disordinata, con due soli indizi: la metà di un vecchio vinile e le ultime parole sconnesse di tua madre. Il rischio è viaggiare nel passato e trovarsi di fronte una generazione che forse ha fallito, se il risultato è la tua vita. Per poi ripiombare nel presente, in una Torino schiacciata dalla crisi, unico appiglio gli amici, precari come te, come te in bilico tra scoramento e speranze, rassegnazione e ribellione.
Questa è la storia di Marta, che come in un giallo dovrà scavare nel proprio passato e in quello della sua famiglia per trovare un padre che non ha mai conosciuto. Scoprirà molto di più delle sue origini, tra i ricordi di una Sardegna che sembra perduta, conoscerà più da vicino la generazione dei suoi genitori, il senso di un ideale. E forse una nuova verità su di sé.
ascolta la conversazione
MARIA ANTONIETTA MACCIOCU
Un estratto da "Vinile"
La guerra di Piero
Peccato, pensò Marta, non odorano più di suore.
Era stata ricoverata quasi trent’anni prima, era caduta a Castel del Monte, si era rotta una gamba e l’avevano portata all’ospedale di Canosa.
Di quei giorni portava impressi il lungo corridoio luminoso di finestroni, il pavimento a specchio, l’altare in fondo con la Madonna celeste circondata di fiori freschissimi, il profumo discreto di saponata e rose, il cullante verdino delle pareti nella stanza, il copriletto immacolato, la fragranza di minestrine e mele al forno preparate da mani sapienti, le sorelle che controllavano, rassettavano, lucidavano, anche quando ripetevano preghiere e percorrevano rosari.
Questo invece era sempre peggio, già sporco alle sette del mattino, mentre ancora trafficavano le ragazze delle pulizie, spargendo sgarbate lisoformio di pessima qualità su strati di polvere e unto appena sfiorati da stracci sudici e veloci.
Dalla sala d’attesa per le analisi arrivava un tanfo sudato e dolciastro, residuo degli ospiti fissi della notte, un barbone e due tossici, il più giovane con un cane arruffato e ciondolante come lui.
Più volte aveva pensato di sgridarle, le ragazze delle pulizie, per quel modo sciatto e inutile di brigare, ma poi le guardava in faccia, poverette, i visi tirati dalle levatacce mattutine, lo sguardo distratto e vuoto, e pensava che erano più sfigate, precarie e mal pagate di lei; capace che dipendevano da un’agenzia interinale o addirittura erano di quelle costrette ad aprirsi una Partita Iva, per pagarci pure tasse e contributi, su quei quattro soldi da fame.
Prese l’ascensore fino al terzo piano, percorse il corridoio del reparto ancora silenzioso e aprì con cautela la porta della stanza, che alla luce sbiadita del mattino autunnale offriva contorni a stento riconoscibili.
Marta si avvicinò al letto e allungò timida la mano a toccare il corpo rannicchiato a fagottino sotto il copriletto stropicciato. Sua madre non si mosse, e lei ebbe il terrore che fosse già morta, così, senza darle il tempo: di cosa poi, non sapeva ancora. Poi percepì il respiro, seguito dal suo sollievo. Sfiorò la pelle della fronte diventata trasparente come carta velina, confortata di poter dare forma alla tenerezza troppo spesso camuffata. Le piaceva spiarla in quella presenza innocua, rincantucciata nel sonno, rimpicciolita e magra come una bambina, la sua bambina di cura e amore.
Quando invece apriva gli occhi e la guardava, Marta si ritrovava addosso la paura di quella domanda taciuta, perché ci hai deluso, ci hai tradito, non sei come ti volevamo? Che erano poi le stesse cose che pensava lei di suo padre e sua madre, anche se aveva smesso di gridarglielo da tanto tempo.
«Signorina, finalmente è arrivata, la signora era molto agitata, la cercava in continuazione, voleva dirle qualcosa, non riuscivo a calmarla, ho dovuto darle un tranquillante.»
L’infermiera entrò rumorosa, un donnone rossetto viola e criniera di ricci finto ebano.
«È che l’autobus non arrivava.»
«Non me lo dica, i mezzi pubblici... e quando mai arrivano.»
La donna andava su e giù, sistemava sul tavolino sbriciolato la tazza della colazione, un intruglio melmoso di caffellatte stantio, apriva le finestre, sbatteva le sedie, controllava la cartella clinica, parlando a mitraglia.
«Poverina sua madre, a solo un anno dal marito, e che donna, intelligente, di cultura, non si lamenta mai, sorride, chiede scusa, ringrazia sempre. Fossero tutti così i pazienti, ce ne capitano sa di tormenti, giù a suonare i campanelli, apra, chiuda la finestra, mi tiri su, guardi la flebo. Ma sua madre no, è davvero speciale, forse un po’ chiusa, due mesi che è qui e di lei so poco e niente, mentre di altri so pure il numero di scarpe dell’amante. Con la fissa della politica però, di quella sì che parla, legge, borbotta, si arrabbia, gliel’ho detto che non sono fatti nostri, che non ci possiamo niente, io non vado neanche più a votare, non ho mica tempo da perdere dietro ai ciarloni. E guardi quanto è bella, fine, distinta, proprio come lei, sembrate due gocce d’acqua, anche se lei, signorina, mi permetta, ha qualche chiletto di troppo.»
«Ha idea di quando si sveglierà?»
Marta non aveva voglia né di ascoltare né di rispondere; non la incuriosiva neppure ciò che sua madre voleva dirle. La conosceva, di sicuro una di quelle sue manie di ordine e perfezione che neanche la malattia aveva scalfito: come piegare le camicie da notte, quanta acqua dare a ciascuna delle piante, in quale ripiano della libreria mettere proprio quel libro; era solo impaziente di assecondarla, di strappare al suo sguardo la fiducia e il consenso di cui aveva bisogno e che faceva di tutto per non meritare. Di mettersi alla prova ancora un volta.
Ora che l’infermiera se n’era andata aspettava il risveglio, silenziosa nella penombra, immersa nei suoi incoerenti affanni, chissà quando e come sarà la fine, lei vorrà esserci, anzi no, magari arrivasse a cose finite, per carità, non se lo perdonerebbe se arrivasse a cose finite, potrebbe farsi madre in quel momento, “Ci sono qui io, non aver paura” mormorerebbe, così che un amore pasticciato e sbilenco potrebbe ritornare semplice e netto come agli inizi, sia pure a parti invertite.
Stava in dormiveglia tra una fitta di strazio e un conato di fuga, fissava un ragno che, circospetto, guadagnava l’angolo sopra la finestra, si stropicciava gli occhi intorpiditi dal calore del riscaldamento e dal miscuglio di disinfettante e borotalco che impregnava tutt’intorno, sua madre è fissata, si cosparge il corpo di Roberts come un neonato.
“Tiene lontano il puzzo del male, inganna la morte” s’illude.
Sussultò quando si sentì toccare, balzò in piedi al balbettio affaticato delle parole.
«Maarta, Maarta.»
La donna cercava di sedersi sul letto, si aggrappava alle coperte per non ricadere, le faceva cenno con le mani di avvicinarsi.
«Marta... tuo padre… non Ivano, altro… ricco, imp… importante… nel cassett…»
«Che dici, calmati mamma, non ti affaticare.»
Ansimava, le pupille dilatate, i capelli scomposti, le labbra distorte.
«Guar… nel... cass… lui… può aiuta…»
Continuava ostinata a tentare di parlare, mentre perdeva fiato e presa e si lasciava andare, e Marta si precipitava a chiedere soccorso.
«Non ci badi, è il delirio», scosse la testa il giovane medico, «ora le facciamo un’iniezione. Piuttosto, si prepari, possono essere ore o minuti, mi dispiace, siamo alla fine.»
*
La vita stinge, qualsiasi vita, filtra un chiaro di luce e potrebbe essere notte, intrusi bisbigli e passi, oscuri i tramestii di fuori. Giornata liquida, ha ripreso a piovere fitto fitto e Marta neppure se ne accorge. Il tempo si è congelato, così estraneo che non ne segue più la cadenza naturale; non le appartiene, chissà dove è andato a finire, lasciandola in balia di quest’attesa sfusa e disabitata.
Sta ottusa e inetta, le mani gelide, lo sguardo impigliato sulla bocca che cerca aria, sul respiro che si esaspera e si affievolisce e a tratti offre l’illusione del sonno.
«Parlami mamma, ora voglio ascoltarlo, il tuo racconto, dimmi cosa sono stata io per te, devo sapere, anche solo un accenno, restituiscimi la tua voce, mi basta una sillaba, apri gli occhi, aprili almeno una volta, guardami» implora in silenzio, ma le palpebre rimangono serrate, intente a guardare la morte da dentro e ad appropriarsene fino in fondo.
Chissà se va incontro al bagliore che dicono o se attraversa il buio più fitto, proprio come Marta.
*
Tutto come voleva lei.
Niente preti, neanche la benedizione, la bara di legno chiaro, la meno costosa, il cuscino di rose rosse.
«Non garofani» si era raccomandata. Certo, avrebbe preferito papaveri, ma dove vai a trovarli i papaveri rossi a novembre a Torino?
Aveva scelto i vestiti da metterle, la gonna lunga di velluto a fiori, di quelle che continuavano a piacerle e che ormai riusciva a scovare solo in qualche banco di robivecchi, il golf azzurro-verde che le ricordava il mare, Superga blu ai piedi, i capelli raccolti a treccia sulla spalla con l’elastico rivestito di stoffa.
«I giovani, né criterio né gusto» aveva sentito borbottare l’infermiera. «Un tailleur le avrei messo io, scarpe col tacco, e le avrei fatto un bello chignon morbido. Così pare una zingara.»
Marta aveva taciuto, commossa che fosse scesa fino alla camera ardente, nessuno lo faceva mai per i pazienti, era un riconoscimento inatteso.
Invece aveva quasi dovuto litigare con gli uomini dell’agenzia funebre, che pretendevano di metterle in bocca due palline all’altezza delle guance per farle apparire il viso giovane e pieno, e che volevano truccarla, proprio lei che se la rideva delle semprevergini della televisione tutte zigomi gonfi imbellettati ed esibiva orgogliosa le sue rughe.
«Ci hanno messo una vita a farsi strada, guai a chi me le tocca.»
Aveva superato il malessere che l’aveva presa all’idea di far suonare L’Internazionale il giorno dopo al commiato, che gli amici, anzi i compagni, patetici, avrebbero cantato in coro, il pugno chiuso davanti alla bara, da vergognarsi come al funerale di suo padre.
Aveva rinunciato ai versi con cui avrebbe voluto accommiatarsi al tempietto prima della cremazione, Il mare m’inseguiva, sentivo alla caviglia il suo tallone d’argento, ed ecco le mie scarpe traboccarono di perle… e… il mare s’inchinò, mi dette uno sguardo potente e si ritirò, perché come la donna di Emily Dickinson sua madre sarebbe stata capace di far indietreggiare anche il mare, con le sue tenaci e calme fermezze; aveva convinto gli altri a fare a meno delle parole di elogio e di ricordo che avevano preparato da leggere, con affetto e ammirazione, tutti insieme, a trovarla ormai una compagna così.
«Niente celebrazioni» le aveva raccomandato, «la mia generazione non ha niente da celebrare, di questi tempi. E niente applausi. La morte è rispettoso silenzio, non spettacolo televisivo.»
Aveva capito che le era più facile assecondarla da morta che da viva.
Ora che era venuto il momento di andar via, Marta si attardava esitante, sgomenta di doverla lasciare sola al freddo e al buio, lei che dalla madre di mare aveva preso l’amore per il caldo e la luce e si accovacciava nella vecchia poltrona di casa al sole della finestra, con lo scialle a frange anche d’estate.
Al chiarore innaturale della camera mortuaria, quel viso composto e sopito le dava ancora la speranza di un’assenza rimediabile, e in quell’illusione le labbra parevano emettere un soffio, seppur flebile, di presenza.
«Signorina, si chiude» disse l’inserviente, togliendosi le cuffie con cui aveva ascoltato senza tregua canzonette, e quasi la spinse fuori, nella sera già notte umida e scivolosa, la prima davvero fresca della stagione.
Alla fermata del tram, mentre aspettava infreddolita e rigida, improvvisamente si percepì distante, laggiù, sotto la pensilina, fra i visitatori usciti dall’ospedale tutti a coppie e famiglie. Con uno sforzo rientrò in sé, si obbligò a seguire con gli occhi le rotaie lucide che curvavano alla rotonda, prese alla cieca il cellulare e mandò loro il messaggio.
Fu così che già li trovò sotto casa, affettuosi e un poco imbarazzati, e subito pensò che non era stata una buona idea, forse sarebbe stato meglio abbracciare la gatta, fare un bagno caldo e non rimandare l’appuntamento col dolore.
Erano premurosi e ciarlieri mentre svuotavano buste, riscaldavano pietanze, mettevano piatti sul tavolo: loro, la sua famiglia da quando era andata via di casa.
Roby aveva portato la sua terribile quiche con würstel e panna, Federica una torta di mele, Lauri l’eterno tabulè di verdure e ceci che gli aveva insegnato il suo macho tunisino. Federica apparecchiò in cucina; ebbe cura di cercare la tovaglia a quadroni bianchi e blu ricamati a tulipani delle feste, che Marta teneva sotto le tovagliette di plastica di tutti i giorni, i tovaglioli di stoffa e perfino due bicchieri a testa, pure se le fu impossibile trovarne uguali per tutti.
La tavola pronta, colorata, i piatti colmi di cibo regalavano a Marta l’illusione di un convivio spensierato e felice. La bottiglia di Barbaresco, dono di Lauri al compleanno, che Marta aveva conservato per le grandi occasioni, allentò con il suo sapore energico la foschia dell’inizio; brindarono perfino, e solo quando Federica accennò la romanza della Traviata Roby le tirò un calcio sotto il tavolo. Non era cosa, non lo capiva da sola?
Mangiarono, bevvero e quasi si ubriacarono.
Sulla porta di casa, mentre l’abbracciava prima di andar via, Antonio le diede il pacchetto sbilenco che aveva appoggiato sullo sgabello dell’ingresso.
«Per il tuo spettacolo. È quello che mia madre porta nella foto della mia stanza, il mio preferito. Starà benissimo anche a te, sai quanto me la ricordi, estrosa e amante del vintage come lei.»
Era un cappellino a conchiglia di paglia nera intrecciata e breve veletta di tulle, di moda negli anni cinquanta.
Della madre Anto conservava suggestivi flash da sciantosa. Era scomparsa all’improvviso quando lui era molto piccolo, gli avevano detto che si era ammalata e poi morta, aveva dovuto diventare adolescente per scoprire che era fuggita in Argentina con un allevatore di cavalli e non aveva più dato notizie. Quel giorno avrebbe voluto bruciare abiti e gingilli che aveva custodito con devozione, ma quel museo d’amore faceva così parte di lui che non poteva staccarsene senza distruggersi. Col tempo aveva spostato la rabbia sul padre, uomo freddo ed egoista che aveva strappato la donna alla casa e al figlio con la disperazione, e chissà che un giorno non ritornasse.
«Grazie, è bellissimo» si intenerì Marta, riservata custode di quelle pene. «Lo prendo solo in prestito però, quando lo rivuoi …»
Federica volle a tutti i costi fermarsi a dormire, «Figurati se ti mollo proprio stanotte, e poi ho un casino di cose da raccontarti, non hai idea di cosa sto passando.»
Di certo l’ultimo grande amore, il più grande di tutti perché il più tormentato, secondo la sua teoria che un amore è vero solo se infelice.
«Tutto il resto è melassa» affermava.
Quando finalmente l’amica si addormentò, Marta rimase a lungo sveglia con gli occhi aperti, a rendersi conto che fino a quel momento non aveva versato una lacrima. Il vuoto le si affastellava nella mente, le ammutoliva i sentimenti, le impediva di mettere a fuoco le cose. Non la riacchiappavano neanche gli anticipi di paura che le avevano attraversato la giornata, l’attimo del coperchio inesorabile sull’ultimo sguardo, dello scivolare muto della cassa verso il nulla, domani.
Anche lei era una morta che respirava, come sua madre alla fine.
Quando tutto si fosse concluso, avrebbe chiesto a Marco, solo a lui, di restarle vicino. Via per lavoro, proprio oggi che ne sentiva così bisogno. Era sicura che tra le sue braccia protettive e le sue amorevoli parole avrebbe trovato il sollievo del pianto e del dolore. E forse nel groppo indistinto che andava e veniva si sarebbero fatti strada spiragli di immagini ancora sepolte, a restituire un territorio che le offrisse almeno la trama, se non il senso, del suo romanzo familiare. Marco era capace di suscitare e ascoltare e aveva vissuto da poco l’esperienza del distacco.
Poi avrebbero fatto l’amore, lui le avrebbe chiesto come sempre di tentare e lei, come sempre, per un attimo, avrebbe pensato che dietro l’angolo poteva esserci una vita più facile e serena.
*
Marco l’aveva conosciuto nel ristorante takeaway indiano di via Saluzzo, il luogo ideale quando non hai niente in casa, venti euro in tasca e non vuoi fare il relitto dai tuoi. Quel giorno Marta era più alternativa che mai, un larghissimo paio di pantaloni orientali a cavallo bassissimo, tre strati di maglie di lunghezze differenti, scarponcini senza lacci, un lato dei capelli rasta, grandi orecchini a campana; lui, scontato come sempre l’avrebbe ritrovato, jeans, maglioncino accollato, Camper e giacca a vento, i capelli tagliati corti, gli occhiali tondi di finta tartaruga: né fighetto né raffinato, banale, un laureato qualsiasi di piccola borghesia o un impiegato delle poste. Guardava perplesso i cibi nel bancone, incerto su cosa chiedere: doveva essere la prima volta che entrava lì.
«Il riso è buono, e anche i samosa, il cheesenaan e il pollo tandoori, l’agnello allo yogurt divino» si era intromessa Marta.
Lui aveva comprato tutto e quando lei era uscita col suo striminzito sacchetto di riso ai ceci, l’aveva trovato fuori ad aspettarla.
«Ho pensato che tutta questa roba è troppa per una persona sola; possiamo mangiare insieme, se ti va.»
Un altro che mi vuole agganciare, illuso, tutti precisi, soprattutto quando mi concio così.
Non le piaceva attaccare bottone a caso.
Ma il ragazzo non aveva niente di allusivo o pericoloso, il sorriso era allegro e dai pacchetti saliva un buon profumo di spezie.
Erano andati a casa di lui, pochi isolati più avanti, un piccolo alloggio vivace e accogliente, arredato con pochi mobili di recupero coloratissimi, smaltati in lucide tinte acide, tappeti sul pavimento scricchiolante di legno scuro, vecchi manifesti di film e attori alle pareti.
«Lavori nel cinema?»
«No, è che mi piace molto, soprattutto quello del passato; adoro Orson Welles e James Dean, per me sono i più grandi, e nessuna è più bella e più sexy di Rita Hayworth, impazzisco quando canta Amado mio.»
Avevano mangiato nella piccola cucina ricavata nell’ingresso, un vecchio bancone da falegname per tavolo e sgabelli di formica rossa anni Cinquanta; avevano poi ascoltato Eminem, Madonna e l’immancabile De Andrè, che a Marta sarebbe piaciuto di più se non fosse stato il vangelo dei suoi.
Marco non le aveva chiesto di fare l’amore, anzi non ne aveva neanche accennato, tanto che Marta c’era rimasta quasi male: certo, non era Rita Hayworth, però …
L’amore, anzi sesso, come lei teneva a sottolineare, meglio avventurarsi il meno possibile in parole impegnative, l’avevano fatto molto dopo, quando di lui sapeva molto di più e nulla di entusiasmante: cuneese, bibliotecario a milledue, fortunato però, posto fisso, casa di proprietà, padre e madre contadini, morti entrambi, che avevano sempre e solo lavorato per comprare giornate di terra e far laureare i tre figli.
«Un annuncio matrimoniale perfetto» commentava Adriana, «sta’ attenta che non te lo soffino, uno così. Soprattutto mamma morta è istigazione alle nozze.»
Marco, oltre il cinema e la musica, amava la politica e il Partito, proprio quel Partito, delle vecchie cariatidi, dei confusi cronici, dei nebulosi oratori. Era tesserato e attivista del Circolo di quartiere.
«Ma come fa uno di noi, giovane, ad andare con quelli? A perdere tempo gratis con la politica? Chi te lo fa fare, oppure speri di far carriera?»
«Perdere tempo, ma che dici. Si fa politica in ogni caso, e spesso la peggiore. Bisogna starci dentro invece, per farsi sentire, per correggere le cose.»
«Figurati, tutti uguali, tutti per il loro tornaconto, dopo un po’ diventi come loro.»
«Sbagli, non siamo tutti uguali, e anche gli interessi sono diversi, ci sono pure quelli collettivi da rimettere in moto.»
«Con i vecchi volponi vuoi cambiare le cose? Mah, chi pensi di essere, Cary Grant in Notorius? Io sto bene alla larga dalla politica. Qualche manifestazione così, di tanto in tanto, per cose concrete.»
«Ecco, bravi, andate in piazza, andateci a casaccio, dietro alle sirene più disordinate, gridate e poi tornate a casa. Ne vedrete di frutti, in questo modo!»
Quando facevano l’amore, anzi sesso, Marta continuava a meravigliarsi che uno così composto e prevedibile a letto potesse essere tanto fantasioso e trascinante, chissà dove aveva imparato, forse tra libri e film, ed era quasi tentata di credere che avesse armi segrete anche per il Partito e sarebbe riuscito davvero a cambiarlo.
Non che lei fosse cambiata con lui, resisteva, resisteva, ma le tentazioni si insinuavano di tanto in tanto, insieme a quelle altre che aveva sempre avuto e che si guardava bene dal confessare a chicchessia.
«Ha una faccia antica» aveva detto una volta sua madre, «severa e affidabile, come i funzionari di partito di una volta.»
E benché sapesse che con quelli non era mai stata d’accordo, Marta le aveva sentito nella voce una venatura di rispetto e nostalgia.
*
Gliela restituirono due giorni dopo.
Aveva dovuto attendere in una saletta fredda dalle tinte neutre insieme a sconosciuti, finché avevano chiamato il nome di sua madre e lei si era introdotta impacciata nella stanza delle consegne, boiserie, luci soffuse, musica sommessa, uno strano pilastrino al centro, incrocio tra leggio e tavolo.
L’addetta, una bionda slavata e sovrappeso in tailleur blu, l’aveva pregata di aspettare prima di rientrare con in mano la cassettina di sottile legno chiaro, semplice e anonima, scelta da Marta sul dépliant dell’agenzia tra tante importanti e costose di metallo, incise a rose, uccelli e impreziosite da cristalli Swarovski. La signora l’aveva posata sul trespolo e l’aveva aperta. Assurdo, aveva pensato, slacciare quel sacchetto da riso e svelare una cenere bianco-grigiastra, quasi potesse riconoscere sua madre in quei resti grossolani e irregolari, annuire che sì, era proprio lei.
«Ha qualche ricordo da mettere dentro?» le aveva chiesto la donna.
«Non sapevo, non ho niente con me.»
Era stretta da una morsa di dispiacere, avrebbe voluto avere qualcosa da affondare in quel mucchietto, un oggetto, un pensiero, magari la fede di suo padre o la prima tessera del Partito, o quella poesia che non le aveva letto o le ultime parole che le aveva sussurrato nel coma, le uniche giuste. Dicono possano arrivare, chissà.
L’impiegata aveva sigillato il sacchetto, chiuso e infilato la cassetta in un contenitore di cartone – incongruo, da colomba pasquale, decorato a gabbiani rosa in volo su un cielo azzurro – gliela aveva tesa con delicatezza e lei si era allontanata a passi brevi con sua madre tra le mani.
L’urna era piccola e talmente leggera, una bottiglia di latte e tre biove su per giù, che quasi non ne avvertiva il peso nello zaino; ma la presenza sì, resa più penosa proprio da quella leggerezza innaturale, dallo sgomento che il carico della vita potesse essere spazzato via così in fretta, quasi muoversi, soffrire, amare fossero stati un sospiro breve e inutile.
Poiché la sepoltura era fissata per il mattino dopo, Marta se la portò a casa, cullandola coi passi sulle scale, toccandola con cautela mentre la tirava fuori, quasi potesse farle male, accarezzandola di sfuggita prima di appoggiarla sul tavolino vicino al letto.
Non riusciva a prender sonno, la promiscuità così sfacciata con la morte la pervadeva di un’inquietudine ansiosa e colpevole. Per tutte le volte che aveva pensato a come si sarebbe sentita liberata da un peso, quando sua madre non ci fosse stata più, per tutte le volte che l’aveva criticata e respinta e sfuggita e temuta, dicendosi sempre che avrebbe recuperato la volta successiva. Avrebbe voluto riaprire e scrutare quelle ceneri, per cercarvi segni delle cose di lei che si affacciavano nelle sue immagini scoordinate: l’acume dello sguardo, il sorriso accennato, la mano che portava indietro i capelli, le spalle incurvate dalla malattia; far scorrere la polvere tra le dita, a percepire nel fruscio dei granelli l’eco dei suoi suoni, la risata maliziosa e squillante, il respiro affrettato del disappunto, il pianto sommesso della delusione e del dolore.
Per scacciare quegli assilli si alzò, si fece due camomille, lavò i piatti nel lavandino, impilò in bell’ordine i libri sparsi sul tavolino del soggiorno. Si assopì all’alba in un dormiveglia agitato, che la faceva sobbalzare all’erta a ogni minimo rumore.
Marco arrivò alle nove con due croissant ancora tiepidi, un cartoccio di caramelle alla menta e un’azalea rossa da mettere sulla tomba. Apparecchiò in cucina; l’aroma caldo del caffè, il profumo provocante del burro, lo scricchiolio del pane che abbrustoliva sulla piastra riportarono a Marta il sollievo di una presenza familiare, di un pezzetto di mondo raccattato dagli angoli nascosti di una consolatoria memoria infantile.
«Vivement dimanche, bella signorina, i vestiti ti donano, dovresti usarli di più.»
«È la prima cosa che mi è venuta sottomano.»
Non era vero, ma non era possibile dare parole all’impulso di riprendersi se stessa, dopo la notte sopraffatta dalla presenza di sua madre: una mise elegante, una delle poche che poteva permettersi, a marcare la differenza con quel suo modo modesto e antiquato di vestire; se poi fosse servito alla causa, beh, l’avrebbe capito. Così aveva tirato giù il vestito azzurro polvere, quello di Armani costato una fortuna nonostante l’avesse preso in un outlet, le esclusive scarpe di Regina, fiocco enorme, tacco dodici, neppure pass-partout con quel colore viola a specchio, come del resto la borsa, impossibili da abbinare con altro; sopra, il giaccone senza tempo di casentino nero regalo di Elisa, lei sì che sapeva come vestire e cosa comprare. Di sua madre, la collanina di corallo e filigrana, unico gioiello che lei avesse amato portare, vezzo di generazioni di donne sobrie e affaccendate, trisnonna, bisnonna, nonna, saltuariamente prestate ai riti della femminilità e della festa.
Si percepiva eccessiva e un po’ ridicola mentre percorreva traballante il vialetto verso la tomba di famiglia che la nonna di mare, sempre previdente, aveva comprato per tempo, «Non si sa mai, un colpo, cinque posti al sole, tutti insieme, d’accordo almeno da morti, » sotto l’ala di quei due angeli in pietra che sorvolavano protettivi.
Sorridevano dalle foto, i nonni, lei con il collettino di pizzo e lo chignon basso sulla nuca, lui con il viso di pietra smorzato dalla tenerezza degli occhi e la morbidezza delle labbra; di suo padre solo il nome e gli anni.
La tumulazione fu rapida e indolore come un’operazione con anestesia; la giornata, una di quelle luminose di Torino, il vento aveva spazzato le nuvole e il cielo era celeste trasparente come nelle immaginette. Marta trovava conforto che fosse il sole ad accompagnare l’ultima discesa di sua madre, era stato così anche per la nonna, forse il padreterno sa quanto le donne sarde amino la luce e il calore e gliene dà compiacente viatico.
Dopo la cerimonia sarebbe voluta tornare a casa, le dolevano i piedi e aveva la testa vuota, ma Marco insistette per portarla a mangiare da Coco’s, il bar trattoria di via Galliari buio e dimesso, quattro tavolini in metallo da dopolavoro, dove si mangia la migliore pasta e ceci di tutta la città, perché i gestori sono pugliesi e fanno cucina come le loro mamme. Non c’erano ceci quel giorno, ma uno spezzatino con patate che sapeva di vapori di casa, di pasti bonaccioni e schietti.
Lei era silenziosa e raccolta, ma lui riuscì a farla ridere, ricordandole di quella volta in cui sua madre l’aveva invitato a pranzo e si era intestardita a preparare piatti piemontesi, col risultato che l’insalata russa affogava in una maionese dolciastra e verdina, il risotto era scotto e bruciacchiato e la panna cotta latte insipido appena rappreso.
Dopo pranzo Marta prese l’agendina e insieme si misero a segnare le cose da fare con urgenza, la sospensione era finita, da domani sarebbe cominciata la corsa ad anagrafe, Inpdap, successione, pagamenti, disdetta di contratti, banca e posta, insieme alla consueta quotidianità.
Quanto poi consueta, senza di lei, Marta non voleva.
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MARIA ANTONIETTA MACCIOCU
Iscrittasi a lettere moderne presso l’Università di Cagliari, ha preparato a Milano la tesi di laurea su “Giorgio Strehler e il Piccolo Teatro”, successivamente tradotta e pubblicata in francese sui numeri 12/13 dei “Cahiers Théatre Louvain”.
Ha insegnato lettere in Sardegna e in Lombardia, prima di trasferirsi definitivamente a Torino, dove vive dal 1974.
A Torino, dopo anni di insegnamento nelle periferie industriali, dove è venuta a contatto con i problemi conseguenti all’immigrazione meridionale, ha lavorato fino a tre anni fa presso la scuola media del Conservatorio, di cui è stata anche reggente per cinque anni.
Al Conservatorio, ha avuto modo di soddisfare il suo amore per lo spettacolo e per la musica, partecipando continuativamente alle attività del teatro Regio, come “La scuola all’Opera” e le attività didattiche e di laboratorio collegate agli spettacoli.
Appassionata di poesia, ha tenuto per i ragazzi laboratori di espressione poetica, scoprendo in sé un’attitudine alla poesia che l’ha portata a pubblicare nell’aprile del 2010, con la casa editrice “Mediando” di Sassari, “Amore che non tocca”, libro di poesie sulla Sardegna. La lontananza infatti non ha scalfito l’amore per la sua terra né tanto meno l’attenzione per i problemi che la riguardano.
Sempre nell’aprile 2010, tre sue poesie sono state selezionate e pubblicate nell’antologia “Chorus”, edita da Ibiskos.
Nel 2002 ha collaborato come free lance alla rivista romana “Inoltre”.
Dal 2007 fa parte dell’associazione torinese “Donne per la difesa della società civile”, per i tipi della quale scrive poesie, memorie e riflessioni di politica e di costume.
“Petalie” segna il suo esordio nella narrativa.
DONATELLA MORESCHI
Per ragioni di lavoro del padre, ha vissuto in varie città italiane: ha frequentato il liceo classico a Ivrea e si è laureata in lettere con una tesi di archeologia a Torino, città dove vive dal 1971.
Ha lavorato per alcuni anni come redattrice per la casa editrice Stampatori, specializzata in didattica e libri per l’infanzia.
Dopo un apprendistato presso la libreria Vasques, sempre in campo didattico, ha aperto una sua libreria. E’ stata anche socia di rinomate librerie di Torino, ultima “La Città del Sole”, in cui ha curato l’ampio reparto per ragazzi “Il piccolo principe”.
Ha tenuto corsi di approfondimento per le animatrici delle ludoteche e di avvicinamento alla letteratura, dalla prima infanzia all’adolescenza, per insegnanti e genitori.
Ha insegnato presso i Centri Territoriali Permanenti della città di Torino e, in seguito a questa esperienza, ha insegnato italiano, come volontaria, alla donne immigrate presso l’Associazione di Animazione Interculturale ASAI, nel quartiere di San Salvario.
Fa parte dell’associazione “Donne per la difesa della società civile”, che si occupa attivamente di politica e di cultura, alle cui pubblicazioni collabora da anni.
Si dedica sia alla prosa ( racconti, novelle, romanzi per l’infanzia e l’adolescenza), sia alla poesia( ha in corso di preparazione una galleria di ritratti dal titolo Affetti).
Petalie è la sua prima pubblicazione.
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