Conversazione di Livio Partiti con Claudio G. Fava
Credo che tutti i fedeli cinetelespettatori di un tempo - intendo coloro che sono/erano appassionati di cinema e devotamente guardavano i film che la tv proponeva - si ricordino di un gentiluomo e grande esperto della tv di Stato che si chiamava (e si chiama anche adesso che si è ritirato in pensione nella sua Genova) Claudio G. Fava.
Era un critico cinematografico divertente e spiritoso, efficace e sapiente ma sempre giocoso. Che ha dato ai cinetelespettatori perfette presentazioni di classici, da Il grande sonno a La guerra lampo dei fratelli Marx, da La regola del gioco a I migliori anni della nostra vita. E che nascondeva (ma non troppo) una passione segreta: gli eserciti, i soldati, i soldatini di piombo e di carta, le uniformi, di cui sapeva tutto e di più. Tanto che un anno, tornando dal Festival di Cannes, ricordo di aver contribuito alla sua collezione con una stampa raffigurante dei soldatini napoleonici.
Mi chiedo se il fatto che adesso Claudio G. Fava ritorni tra noi con un bel volume edito da Le Mani, Guerra in cento film (pp. 240, euro 18) non sia collegato a quella antica passione.
Fatto sta che in questi cento film, da All'Ovest niente di nuovo a The Hurt Locker, e quindi dal 1930 ad oggi, selezionati in modo molto personale secondo regole autoinflitte (mai più di un titolo per autore, con l'eccezione dei due film speculari di Eastwood, Flags of Our Fathers e Lettere da Jwo Jima; nessun film per conflitti anteriori alla prima guerra mondiale e altre limitazioni denunciate nell'introduzione), l'autore immette tutta la sua sapienza. Non tanto di critico - con tanta storia e tanta critica alle spalle è difficile dire cose sorprendenti - ma, ancora una volta, di esperto e di curioso che ci fornisce non solo i diversi umori culturali che passano sotto le immagini belliche, ma il testo in un contesto più ampio. Un esempio? La scheda su Parigi brucia. Dove, invece, Fava non convince fino in fondo è nella traduzione del titolo The Hurt Locker (La cassetta del dolore). Andate a vedere sul sito wordreference.com. Stanno ancora discutendo in più lingue su cosa il titolo del film premio Oscar di Kate Bigelow significhi esattamente. Forse sarebbe bene chiederlo a lei.
Irene Bignardi
«Il Venerdì di Repubblica» 11 giugno 2010
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Sin dagli inizi il cinema, prima muto e poi sonoro, predilesse l’argomento della guerra. Non è facile riassumere in 100 titoli l’enorme apporto nel cinema e del cinema sulla volgarizzazione e la retorica dei conflitti. È questo, forse, uno dei temi più difficili in assoluto che i film possano affrontare, dato che alla base stessa della guerra e della sua descrizione risiede la paura. Sentimento quasi impossibile da ricreare artificialmente sui volti dei protagonisti, dei caratteristi e delle comparse. Nonostante questo elemento di fondo, una minoranza di opere riesce, almeno in parte, a restituire la terribile occasione di vita e di morte che fisiologicamente è presente in un conflitto e che, a parte il cinema, anche alcuni grandi romanzi ci hanno offerto. In questo libro si tenta un censimento che l’autore stesso riconosce essere forzatamente incompleto e, per paradosso, implicare semmai l’esigenza di un “sequel”. Ad esempio qui, per ragioni di spazio, sono stati evocati solo i film che prendono occasione dalla prima guerra mondiale. Rinunciando perciò a quell’importante magazzino che va dalle guerre dell’antichità, via via sino a quelle dell’Ottocento, ed alle magnifiche descrizioni della vita militare, in particolare del XIX° Sec., di cui siamo debitori a tanti registi, a cominciare dal grande John Ford. Inoltre, Fava ha scelto di analizzare un solo film per regista, limitandosi a citare altri eventuali titoli, ovviamente dello stesso autore, all’interno del testo consacrato al film considerato "principale" (con l’unica eccezione delle due opere "giapponesi" di Clint Eastwood).
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